venerdì 9 marzo 2012

Breaking News : Grecia


L’annuncio arriva da Atene da fonti del governo greco:“L’adesione allo Swap ha superato il 75%”.Tra gli istituti ad aver aderito, ci sono: Ageas, Allianz, Alpha Bank, Axa, Banque Postale, Bbva, Bnp Paribas, Cnp Assurances, Commerzbank, Credit Agricole, Credit Foncier, Dekabank, Deutsche Bank, Dexia, Emporiki Bank of Greece, Eurobank Efg, Banca Generali, Greylock Capital Management, Groupama, Hsbc, Ing, Intesa Sanpaolo, Kbc, Marfin Popular Bank, Metlife, National Bank of Greece, Piraeus Bank, Royal Bank of Scotland, Société Générale e Unicredit. Il Commissario agli Affari Economici dell’ Unione Europea Olli Rehn ha dichiarato: “La conversione si concluderà senza problemi”, mentre John Chambers il direttore per i debiti sovrani di Standard & Poor’s: “Nonostante sia ad un passo dall’abisso, la possibilità che la Grecia vada in fallimento è difficile”. Secondo Mario Monti le adesioni allo swap greco superano il 60%, lo ha detto al termine della bilaterale con il governo serbo.
E anche secondo Charles Dallara il presidente dell’ IIF ( Istituto di Finanza Internazionale ), la partecipazione dei creditori privati allo swap del debito greco è «largamente al di sopra del 50%». «Sono ottimista sul fatto che riusciremo ad arrivare a un accordo nelle prossime ore», ha dichiarato alla stampa Dallara, senza tuttavia fornire dati aggiornati sul numero delle banche disposte a sottoscrivere l’intesa
Comunque stasera dopo le ore 21:00 si potrebbero avere delle anticipazioni su come è andato il raggiungimento del quorum, ma i dati saranno pubblicati domattina 9 marzo alle ore 07:00 QUI.
E siamo giunti all’ora X.
Due settimane di tira e molla e ora la grecia saprà a cosa va in contro: le soluzioni sono il probabile ritorno alla dracma con un default incontrollato, oppure la sottomissione totale imposta da Bruxelles, ma la salvezza della zona EU.

Il tutto dipende da come andrà il Psi, che si chiuderà alle 21

.Per chi non lo sapesse è il significato di “Private sector involvement” per il coinvolgimento dei creditori privati nel salvataggio del Paese.
In poche parole, sia le banche che i fondi di investimento che le assicurazioni e anche i risparmiatori non istituzionali che hanno in mano titoli di Stato greci sono chiamati ad accettare un taglio del valore nominale pari al 53,3%. ciò significa perdere circa il 75% dei loro soldi investiti.
Questo tipo di operazione avviene attraverso lo scambio detto appunto swap dei titoli in portafoglio con altri bond a scadenza più lunga e rendimento più basso, tipo quello che è successo in argentina e ne so qualche cosa visto che non ho aderito caparbiamente e mi ritrovo con i bond originali a valore ZERO( confido negli avvocati anche se… non mi aspetto più nulla).
Se tutto andrà come nel verso giusto, debito pubblico greco sarà meno pesante e verrà ridotto di circa 100 miliardi di euro, ritornando in parte alla sostenibilità in rapporto al Pil.
Ma c’è altro: la settimana scorsa i leader dell’eurozona hanno subordinato al successo del piano un’esborso del nuovo pacchetto d’aiuti internazionali destinato ad Atene (130 miliardi di euro). ed è per questo motivo che è necessario che l’adesione l’adesione dei creditori privati sia almeno del 90%.

Da fonti giunte direttamente da Atene dal sito internet ellenico BankingNews e segnalate dal nostro sito su Finanzaonline, che negli ultimi giorni è stato spesso utilizzato come barometro dell’accoglienza all’operazione. Secondo il sito web le adesioni all´offerta avrebbero già raggiunto il 76,6% del totale, avvicinandosi alla soglia di adesione richiesta dal governo greco e posta al 90 per cento. Ricordo che ieri c’è stato anche il via libera da ben 32 banche, comprese le italiane Unicredit, Intesa SanPaolo e Banca Generali.
Quindi sembrerebbe fatta se teniamo conto della notizia visto che il computo finale non sarebbe sotto il 75%. Quindi niente tsunami della bancarotta incontrollata. Ora dobbiamo sperare di raggiungere il 90% anche perchè se invece si rimane fra il 75 e il 90%, allora la partita si farà davvero complicata.

ATENE E’ COMUNQUE IN GRADO DI IMPORRE L’ADESIONE
Come ho già detto diverse volte, nel caso che non ci siano i paramentri di adesione stabiliti, Atene potrebbe attivare quelle che si chiamano “clausole di azione collettiva” (Cac), il che significherebbe imporre forzatamente a tutti i creditori privati di aderire allo swap e rimetterci dei soldi… tanti soldi.
I dettagli dello scambio si presenta a oggi volontario e da questo aggettivo dipende un particolare decisivo.
L’Isda (l’associazione internazionale su swap e derivati) ha stabilito una cosa importantissima, cioè che lo swap su base volontaria non costituisce un “credit event” e quindi non fa scattare i rimborsi sui Cds.
Il Cds non è altro che il “credit defaultswaps” e indica dei titoli derivati che funzionano come assicurazioni sulla vita di altre obbligazioni cioè dei titoli di Stato greci.
quindi auguriamoci che ciò non succederà anche perchè se Atene dovesse obbligare i suoi creditori( come ha già minacciato il ministro greco delle finanze) ad accettare delle perdite, senza possibilità di scelta, l’Isda rivedrebbe la propria decisione:cioè l’insolvenza della Grecia sarebbe priva di ogni tipo di pagamento dei Cds diventerebbe inevitabile.
E qui scatterebbe l’ effetto domino, ecco perchè i mercati sono nervosi e ad oggi è impossibile quantificare con precisione il disastro.
Per chi non lo sa i Cds sono scambiati su un mercato non regolamentato questo tipo di mercato viene denominato “over the counter”, tutto ciò per dire che nel tempo si sono create delle interconnessioni finanziarie che è possibile ricostruire soltanto dopo.
Quindi non si può sapere con precisione chi dovrebbe pagare chi, né le somme in gioco. Per fare l’esempio a hoc, basti pensare a Lehman Brothers e alle sue ripercussioni globali proprio seguendo questo schema, quindi ci sarebbero conseguenze al livello di sistema con rischi collasso.
I creditori sanno benissimo che se non accettassero di perdere il 75% del loro investimento probabilmente lo perderebbero per intero e da un comunicato sempre fatto dalla Grecia chi non aderisce “non contempla la possibilità di mettere a disposizione risorse per i creditori privati che non aderiranno al Psi”.

giovedì 8 marzo 2012

Apple, ovvero l’ennesima catastrofe (non) annunciata

Riporto un articolo di Francesco Caruso su Apple, tutti sanno quanto io sia sempre stato convinto delle grandi performance di Apple , e per quanto storni di mercato siano sempre alle porte sopratutto per un'azione come la Apple che non paga dividendi ma paga con performance e quindi con un beta più alto e più sensibile a rallentamenti di mercato, parlare di bolla speculativa com fa Caruso mi sembra molto molto molto azzardato per molti fattori.

Prima dell'articolo date un'occhiata all'ultimo Apple Specil Event dove Tim Cook Ceo Apple ha presentato qualche numero per Apple oltre al nuovo IPad Hd

Con i suoi 505 miliardi di USD di capitalizzazione, il titolo Apple (AAPL) è arrivato a valere oggi, approssimativamente (dati ufficiali Federazione Mondiale delle Borse):
1/30 dell’intero, mostruoso debito pubblico americano
il 15% delle borse di Londra e Tokyo
il 20% delle borse di Shanghai e Hong Kong (chissà cosa ne pensa qualche miliardo di cinesi)
il 26% della borsa canadese
il 42% della borsa australiana
il 43% della borsa tedesca (chissà cosa ne pensa la Merkel)
il 46% della borsa svizzera (che forse è a sua volta un filo sopravvalutata, mi perdonino i miei amici luganesi, visto che vale una volta e mezzo quella russa e quasi come quella tedesca)
il 50% delle borse spagnola e indiana (chissà cosa ne pensa un miliardo di indiani)
il 65% della borsa russa (chissà cosa ne pensa Putin)
il 100% della borsa italiana (chissà cosa ne pensate voi).

Solo per fare un altro esempio, Apple ha 60’400 dipendenti, meno di un terzo della Fiat (quasi 200’000) che pero’ capitalizza 1/60 di Apple. Google, invece, capitalizza “solo” 200 miliardi di USD (tanto per capirci: come tre manovrone salvaitalia, oppure un po’ meno del debito pubblico greco oppure circa 1/12 dell’intero debito pubblico italiano) con 32’000 dipendenti. Viviamo in tempi interessanti.
Quando una bolla si puo’ definire tale? Ne avevo parlato a proposito dell’oro (concludendo che non era in bolla). A mio modo di vedere, una bolla ha tre “hallmarks” tecnici:
1. l’accettazione universale dell’idea di perpetuazione della salita (e mai nella storia dei mercati fu vero come lo è oggi per Apple);
2. l’ECCESSO DI PRESENZA di un asset nei portafogli (specie dei piccoli investitori), non un generico ECCESSO DI VALORE, che è solo figlio del primo;
3. una bolla per esistere ed essere tale deve FAR MALE A TANTI, quando scoppia (e quando la bolla Apple scoppierà, farà MOLTO male a MOLTI).

Apple è – a mio parere - il perfetto esempio di bolla speculativa in fase parabolica.


E’ il contrappasso dantesco del Gas Naturale, che non sale mai e che comincerà a salire solo quando l’ultimo investitore (probabilmente a leva), stremato, lo venderà vicino a zero. Provate a dire a un professionista del settore che Apple è in bolla: vi diranno che non è vero, vi diranno che Apple è un’azienda meravigliosa (e lo è senza dubbio) destinata a cannibalizzare tutte le altre aziende del settore sul mercato. E molto probabilmente per qualche mese ancora lui e tutti quelli che sono ultrabullish su Apple avranno ragione. Nessuno, men che meno il sottoscritto, ha la piu’ pallida idea di dove si concluderà questo movimento: anzi, storicamente queste situazioni perdurano ancora qualche mese prima del climax conclusivo, dopo che che qualcuno, tra lo scetticismo generale, comincia a segnalarle. Apple da mesi sale con volumi che scendono. Il ristorante alza i prezzi ma gli avventori sono sempre meno.
Ma attenzione, qui arriva l’Effetto Speciale. Apple è stata ipercomperata come adesso (RSI quarterly sopra 90) solo tre volte nel passato:
1. prima del Crash del 1987
2. sul Grande Top del 2000
3. poco prima del Crash del 2008

Apple - dati trimestrali

Questi sono i dati. Vedete voi.

Pertanto non so quando (penso non tra molto), ma ho qualche idea di piu’ su “come” si concluderà la faccenda, perché la storia si ripete e al posto di Apple, negli ultimi decenni, ci sono stati tanti meravigliosi titoli/mercati di cui si cantavano le sorti magnifiche e progressive e di cui ora si ha solo vago ricordo o che languono a decine e decine di punti percentuali da quando – anni e anni fa – gli ultimi entusiasti compratori li avevano acquistati introrno ai massimi.
Esempi sparsi.
Microsoft, che nel 2000 valeva 53 e ora 31.
Il Nasdaq, che nel 2000 valeva 5500 e ora 3000.
Worldcom – fallita
Enron – fallita
General Electric, che nel 2000 valeva 60 e ora 19
Cisco, che nel 2000 valeva 82 e ora 20
Oracle, che nel 2000 valeva 46 e ora 29
Coca Cola, che nel 1998 valeva 86 e ora 69
La borsa italiana, che nel 2000 valeva 50000 e ora poco piu’ di 16000
Buy & hold, dove sei?
Tutte aziende e mercati meravigliosi che – mentre salivano a parabola – tutti avevano in portafoglio e nessuno discuteva.
Quando un titolo arriva a capitalizzare oltre ogni senso logico, succede SEMPRE qualcosa che lo riporta sulla terra, al di là di ogni giudizio di valore sul suo prodotto. Microsoft negli ultimi 10+ anni ha fatto pena, ma i suoi prodotti li usiamo tutti. La Coca la beviamo tutti, ma è ancora sotto ai massimi di 14 anni fa. Azienda e titolo NON rappresentano sempre la stessa realtà.
Attenzione: opporsi a questi movimenti (= andare short) nella loro fase conclusiva è tuttavia come cercare di fermare un treno impazzito col pensiero. Ma lo scrivente si permette – esattamente come fece tra fine 1999 e inizio 2000 poco prima dello scoppio della bolla di Internet – di suggerire ai suoi lettori di monitorare per bene le proprie eventuali posizioni, alla vigilia di altre strombazzate magnificenze come il collocamento di Facebook, mirabolante azienda sfamatrice di popoli e genti, e magari la stessa Linkedin che – con, udite udite, ben 2116 dipendenti (!) – capitalizza piu’ di Fiat. E chissà cosa ne penserebbe la Camusso se glielo dicessero.
Perdonatemi il sarcasmo e il cinismo, non voglio mancare di rispetto a nessuno, i soldi sono sacri e i mercati sono gli unici giudici di sé stessi: ma qui su Apple siamo alla follia pura, senza che uno - dico uno solo – dei tanti paracommentatori borsistici su web o tv si sia degnato di dire una sola parola sul fatto. Non per dare suggerimenti: solo per “istruzione culturale” del povero investitore e – magari – per amore della ricerca della ragion perduta, per una volta tanto con qualche mese di anticipo sull’ennesima catastrofe che, come al solito, è davanti agli occhi di tutti ma che nessuno ha il coraggio di annunciare.

martedì 6 marzo 2012

Oil price to the roof will oil majors eps spike up as well ?

Oil prices are soaring. Does this mean that we are going to see sector upgrades to levels seen in 2008? It might seem counter-intuitive, but I say no, even with the Brent price approaching the highs of 2008.

Four years ago, strategists from the big investment houses got it wrong: they believed the oil price level was sustainable. Their estimates for EPS increased sharply for the years 2008-2010, see chart 1 below.
Those estimates almost followed the oil price level in tandem, and then a dramatic decline in oil prices changed the whole picture. Earnings ended at depressing levels compared to the hyped expectations.

This time around, I think the strategists and analysts are more reluctant to incorporate higher oil prices into their EPS estimates. Instead, I suspect they will corporate the higher oil prices in an incremental fashion. As time passes, the revenue and profits are booked, and subsequently the EPS will be revised up. There is not much “forward looking” in this, but this is what I expect at the moment. A stronger for longer situation could persuade the investment banks to change their stance and a general upgrade could emerge. I see this more as a late 2012 story.

Extracting oil costs more than it used to
The above angle was a general change of momentum. Another angle to be aware of is some structural changes over the five years. Notice that increasing oil prices do not spill over to EPS over the long period seen from 2004 - see again chart 1. There are several reasons for this phenomenon. First of all the price of extracting oil has increased, as new fields are in more difficult locations, such as deep water.

This is reflected in margins. EBITDA margins have been in the 43% level in 2006-09, but in 2010 there was a drop to the 39% level and 2011E/12E are expected at the same level. This does matter a lot for the bottom line if 4% of revenue disappears to expenses on sub suppliers etc., see table 1 on the left. Secondly, depreciation and amortisation has risen as increased investment is required to extract oil. This has put pressure on the EBIT margin, on top of the erosion on EBITDA level. The above factors are some of the reasons not to expect earnings to be revised up substantially on back of the latest oil price rally. EPS will not match the higher levels seen in 2008.

A Margaret Thatcher la TAV o TAC che si voglia non sarebbe piaciuta pernulla !


Dopo il tunnel (virtuale) tra il Gran Sasso e il CERN di Ginevra, trafficato da una miriade di neutrini, un altro tunnel è ritornato al centro dell’interesse dell’opinione pubblica, quello della TAV Torino-Lione, contestato con metodi ragionevoli dagli abitanti della Val di Susa ma anche da frange estremiste la cui protesta spesso non disdegna dallo sfociare in atti violenti o comunque inaccettabili quali blocchi stradali e ferroviari. Di fronte a progetti come questo non dovrebbe essere tuttavia difficile conseguire il consenso di gran parte dell’opinione pubblica nazionale: basta dimostrare che il gioco vale la candela, nel caso specifico che i treni futuri valgono la costruzione dei nuovi binari e che in conseguenza i nuovi binari varranno di più dei soldi necessari a costruirli.


Se si prova e si riesce a farlo, convincendo la collettività dei taxpayers, diventa molto più facile convincere anche le collettività locali i cui territori dovranno ospitare le nuove opere e sostenerne le esternalità negative ambientali senza spesso trarne vantaggi. Bisognerebbe quindi produrre dapprima solide stime sui vantaggi economici (da economista liberale preferisco in realtà chiamarli ricavi) e sui costi di ogni progetto, avendo l’avvertenza di farli produrre o almeno valutare da organismi indipendenti, che non traggano vantaggio dalla realizzazione dei medesimi.

Questo è il difetto principale del percorso decisionale delle grandi opere in Italia: chi ne trae vantaggio in genere non ne sopporta alcun onere o rischio mentre chi ne sopporta gli oneri in genere non ne trae alcun vantaggio. Inevitabile che i primi siano radicalmente d’accordo e i secondi radicalmente contrari e che il dibattito tra gli uni e gli altri sia un dialogo tra sordi. E anche inevitabile che quando prevalgono i primi si facciano opere inutili, o utili ma a costi esorbitanti, facendo giocare molto poco il taxpayer e addebitandogli molte candele. Oppure, quando prevalgono i secondi, che non si riescano a fare opere caratterizzate da vantaggi che eccedono nettamente i costi. Veniamo al caso specifico della TAV: i valsusini ci perdono solamente dato che l’opera verrà fatta sul loro territorio ma non lo servirà, favorendo (forse) il trasporto passeggeri e merci ma solo su distanze molto più lunghe; i diversi livelli di governo del Piemonte (città e provincia di Torino, regione) ci guadagnano solamente dato che la nuova opera accresce la loro dotazione infrastrutturale senza che essi debbano spendere un soldo; le imprese costruttrici e le banche finanziatrici ci guadagneranno con certezza, non sostenendo alcun rischio (interamente a carico dello stato come committente dell’opera e garante dei finanziamenti); lo stesso si verifica per FS, braccio operativo dello stato per la realizzazione dell’opera: se i costi sforeranno lo stato trasferirà le risorse aggiuntive necessarie mentre se la nuova linea non avrà traffico il bilancio di FS non ne risentirà; il contribuente italiano perde invece con certezza dato che contribuirà agli oneri senza usare l’opera (tranne forse i pochissimi connazionali che usano il TGV anziché l’aereo per andare a Parigi). Impossibile che da schemi di ripartizione vantaggi-svantaggi di questo tipo vengano fuori opere pubbliche dotate di senso economico.

Le riflessioni precedenti sembrano dar ragione alla posizione tenuta da Margaret Thatcher in relazione al progetto del tunnel sotto la Manica, quando resistette alla pressioni di Francois Mitterand per finanziare l’opera con soldi dei contribuenti di ambo gli stati. Diede il via libera, si, ma senza un penny di soldi pubblici (‘not a public penny’), preservando in tal modo i suoi contribuenti da un pessimo affare (al contrario degli 800 mila piccoli azionisti privati, soprattutto francesi, che sottoscrissero le azioni e si ritrovarono dopo pochi anni con quasi nulla):

La plus grande victoire de Thatcher est surtout d’avoir imposé à un Président français socialiste un financement 100% privé. Un choix irrévocable qui, pour la Dame de fer, doit démontrer la supériorité du libéralisme (Marc Fressoz, Le scandal Eurotunnel, Flammarion enquête,2006) .

Da questa posizione storica si può ricavare una sorta di ‘teorema Thatcher’ sulle grandi opere:

Una grande opera dovrebbe essere sostenuta da una grande domanda dei suoi potenziali utilizzatori.
Una grande opera senza grande domanda è un grande spreco e nessun privato sarà mai disponibile ad assumerne gli oneri di realizzazione e sfruttamento economico.
Una grande opera con grande domanda è ripagabile con i futuri proventi da pedaggi e può quindi essere realizzata e gestita in project financing da operatori privati in concessione, senza necessità di assunzioni di rischi ed oneri in capo al settore pubblico.
Questi sono gli insegnamenti principali della posizione della Thatcher in relazione al Channel Tunnel che non solo non sono stati colti ma neppure meditati nell’esperienza italiana delle grandi opere. E’ evidente che la Tav Torino-Lione non supera il Thatcher test e che nessun privato si accollerebbe mai il rischio di costruzione ed esercizio dell’infrastruttura senza garanzie e contributi pubblici rilevanti. Appurato questo bisogna tuttavia considerare che i contribuenti italiani non sono (purtroppo) se non in quantità molto ridotta thatcheriani convinti e possono quindi essere persuasi a contribuire a una grande opera. Bisogna tuttavia che essa sia giustificata dai numeri, non dalle opinioni, e i numeri debbono essere oggettivi, neutrali e certificati e non opinioni travestite. Sinora, tuttavia, numeri oggettivi, certificati e non di parte non se ne sono visti.

Diversi dubbi economici affliggono in realtà il progetto TAV. La nuova linea prevista migliorerebbe infatti l’offerta sia per quanto riguarda la qualità dei collegamenti (tempi di percorrenza) sia la quantità (crescita della capacità). Tuttavia la crescita della capacità si giustifica se una domanda crescente nel tempo rischia di saturare la capacità esistente, ma non è questo il caso della linea esistente la cui domanda è declinante da diversi anni e la sua capacità un multiplo della domanda attuale con una domanda molto più forte nei valichi svizzeri. Quanto alla qualità è evidente che la riduzione dei tempi di percorrenza garantita da linee ad alta velocità interessa il trasporto passeggeri ma non quello merci. E il trasporto internazionale passeggeri su questa linea è ridotto: nel 2000 vi erano quattro treni al giorno in entrambe le direzioni, due TGV Milano-Lione-Parigi e due EC Milano-Lione. Oggi vi sono solo tre TGV quotidiani da 360 posti sul percorso Milano-Lione-Parigi, offerti dalla sola SNCF (anche se in crescita rispetto ai due dell’orario 2011).

Tuttavia questi treni non usano la tratta italiana ad alta velocità disponibile tra Torino e Milano ma la vecchia linea normale, impiegando un’ora e mezza tra le due città a fronte dei 54 minuti dei treni Frecciarossa di Trenitalia. Ma le linee AV non dovrebbero servire per la circolazione dei treni AV? E se i treni AV attuali tra Milano e Parigi non usano i quasi 150 km di linea AV esistente tra Milano e Torino, costati 8 miliardi di euro, perché mai avrebbero bisogno di altri 60 km di linea AV sotto le Alpi, il cui costo è ragionevolmente stimabile in almeno altri 8 o 10 miliardi di euro?

lunedì 5 marzo 2012

EUR/USD

A seguito della operazione di LTRO effettuata con successo la scorsa settimana da parte della BCE vorrei modificare leggermente le previsioni sull’euro per i prossimi mesi. L’opinione prevalente resta sempre impostata al ridimensionamento dell’euro nel corso del 2012 ma il ribasso sarà spostato in avanti nel tempo con obbiettivo posizionato a quota 1,200 – 1,2500.

Nel breve termine l’euro dollaro resterà stabile. Una delle ragioni più importanti per il ridimensionamento dell’euro è rappresentata dalla politica monetaria della BCE che nei prossimi mesi avrebbe dovuto intraprendere un’azione più aggressiva. L’efficacia ed il successo dell’operazione LTRO hanno mostrato che i problemi di finanziamento del sistema bancario sono sostanzialmente diminuiti a seguito di queste operazioni e credo che la BCE potrà avere un atteggiamento sui tassi più moderato effettuando solo un ridimensionamento dei tassi di 0,25 % nel corso del 2012. Ulteriormente dopo la decisione di approvare il secondo pacchetto di salvataggio da parte della UE alla Grecia i rischi sono diminuiti e quindi una fase di relativa calma sui mercati finanziari è possibile.

In questo periodo l’euro dollaro resterà inserito nella fascia di oscillazione tra quota 1,300 e quota 1,3500. L’assenza di notizie per l’euro potrà essere considerata come favorevole e ricordiamoci che stiamo vivendo la fase di “Sweet Spot” come indicato da qualche settimana, guidata dal rimbalzo dei dati sulla crescita e dalla bassa inflazione, con le banche centrali che continuano ad immettere liquidità nei mercati. Siccome molti operatori hanno perso l’opportunità di partecipare al miglioramento dei titoli obbligazionari dei paesi periferici , ritengo che in questa fase cercheranno di entrare in questo mercato sostenendo quindi i prezzi e di conseguenza l’euro, come evidenziato dal grafico. Non credo però che la previsione per un ridimensionamento dell’euro possa essere modificata, ma è solo spostata in avanti nel tempo.

In effetti le problematiche strutturali dell’euro sono ancora tutte irrisolte. Il “Gap” competitivo tra i paesi “core” ed i paesi “periferici” della zona euro resta presente. Dopo le operazioni LTRO il sistema bancario europeo resta maggiormente esposto verso i titoli del debito pubblico ed è chiaro che la BCE ha una posizione privilegiata rispetto agli altri credito, ma la Germania continua ad opporsi ad un ampliamento del fondo ESM. Se nei prossimi mesi si presenterà un ulteriore momento di difficoltà dei paesi periferici il sistema bancario sarà maggiormente vulnerabile ed il fondo ESM non sarà sufficiente.

Direi che uno dei fattori scatenanti per l’euro potrà essere rappresentato dai dati economici riguardanti la crescita per il 2° semestre 2012 che dovrebbero evidenziare un peggioramento. In un contesto di bassa crescita , il rapporto Debito-Pil avrà difficoltà a restare sotto controllo e ci sono solo tre strade per gestire questa questione: più austerità, ulteriori salvataggi e migliore competitività. Di queste opzioni solo l’ultima sembra essere quella percorribile e credo quindi che l’euro potrà oscillare al ribasso contro dollaro e contro le altre principali valute se la zona euro vorrà restare sotto l’attuale forma.

I dati più importanti che potranno essere verificati in questa fase di mercato saranno quelli riguardanti la crescita (PMI) e se come credo la crescita mostrerà attraverso questo settore economico il peggioramento, l’euro potrà andare sotto pressione.
GBPAnche per la sterlina resta valida l’analisi effettuata per il dollaro. La stabilità che si potrà verificare sull’euro porterà la valuta inglese ad oscillare all’interno della fascia tra quota 0,8250 e quota 0,8550 per i prossimi mesi. Il ridimensionamento dell’euro ed il conseguente miglioramento della sterlina verso quota 0,800 sarà solo spostato in avanti nel tempo.

domenica 4 marzo 2012

L'inaffidabilità delle agenzie di Rating

Nelle nostre conversazioni usiamo spesso l'espressione eterogenesi dei fini. Il significato di questa espressione è semplice: un costrutto umano, istituzione, associazione, ecc., nato per perseguire determinati fini, strada facendo ne persegue altri. Gli esempi in proposito sono moltissimi, ciascuno di noi potrebbe ricordarne a iosa. Si potrebbe dire che l'eterogenesi dei fini è talmente diffusa da essere non una patologia della società, ma un aspetto della sua fisiologica vita.

A questo penso quando leggo o ascolto le notizie sulle agenzie di rating e sui commenti che la loro azione provoca. Perché? Perché esse, alla loro nascita, che può collocarsi agli inizi del Novecento negli Stati Uniti, erano state concepite da dei veri e propri innovatori del sistema capitalistico, innovatori che erano anche dei moralisti. Non a caso nascono dopo la grande tempesta della speculazione finanziaria di fine Ottocento e dei primi del Novecento scatenata dai cosiddetti Robbers Barons contro i quali la magistrale penna di Thorstein Veblen scrisse pagine esemplari in The Theory of the Leisure Class.

Di che cosa si trattava? Si trattava di trovare un mezzo grazie a cui non si potessero più venderelemmons, ossia detto in parole povere "sole", a investitori malcapitati e sprovveduti. Le società che vendevano azioni erano sottoposte a un rating, cioè a una valutazione classificatoria che ne misurava il grado di affidabilità nel breve, nel medio e nel lungo periodo. Naturalmente tutto quello che nasce nel sistema capitalistico diventa merce e quindi via via i fondatori delle agenzie di rating, che son più o meno quelle di oggi, non solo si facevano pagare in modo continuativo dalle aziende che valutavano, ma via via che gli affari crescevano, con l'ampliarsi della borsa, inclusero nel loro capitale sociale nuovi azionisti, che spesso coincidevano e coincidono con alcune delle istituzioni che esse, un tempo, valutavano a pagamento.

Ma un'altra forza del capitalismo è anche quella di trovare una giustificazione razionale ai conflitti di interesse possibili. Questa giustificazione razionale risiede nella parabola che gli economisti liberisti spesso ripetono: se un'organizzazione che agisce sul mercato non funziona, il mercato, che è sempre razionale, ne decreterà la morte. Quindi se le agenzie di rating sono sopravvissute, che so alla delegittimazione che ebbero, per esempio, con la crisi del '29, quando un sacco di triple A crollarono rovinosamente, oppure al crollo più recente della Lehman Brothers, valutata come si fa con le stelle del firmamento, se esse non sono state eliminate dal mercato, la ragione di ciò risiede nel fatto molto semplice che sono esse stesse a fare il mercato, con una tale forza e capacità egemonica che sopravvivono a ogni forma di smentita che dallo stesso mercato (sic!) promana. Perché questo è il nodo vero: certo, il conflitto di interesse esiste, perché chi le possiede, le agenzie, può manipolare i titoli come meglio crede, ma dire ciò mi si perdoni, è cadere in una banalità.



La verità è che, per coloro che operano e credono nei cosiddetti mercati, è necessario (pena il suicidio morale) dimenticare i fallimenti delle agenzie di rating e questo perché il nuovo mercato finanziario, ormai la recente crisi lo ha dimostrato, è l'unica forma di mercato dispiegato che, per coloro che credono nella sua perfezione, non sopporta di essere messo in discussione. Infatti, questa nuova forma di mercato per continuare a esistere non ha bisogno di comportamenti virtuosi e tanto meno di morali di sostegno. Il mercato, che abbiamo in mente, che aveva bisogno di tutto ciò, era quello precedente la deregulation reaganiana, prima dell'avvento dell'Itc grazie a cui schiacciando un bottone e applicando una formula matematica compro e vendo migliaia di titoli per bilioni di dollari. Questo mercato è la quintessenza della reificazione e del rischio permanente e non ha nulla a che vedere con la struttura industriale, concreta, in carne e ossa, della società capitalistica e di ciò che rimane del mercato industriale.

Le agenzie di rating sono sopravvissute a tutti i loro smacchi, a tutte le loro failures, perché di esse vi è bisogno: sono la foglia di fico, sono come la parabola di Menenio Agrippa che giustifica lo sfruttamento di una classe sull'altra, sono come la corporate social responsability, in cui a parole primeggiavano i capi malfattori di Enron. A conferma della mia tesi cito il fatto che si è cominciato a lamentarsi delle agenzie di rating solo quando queste hanno investito i titoli del cosiddetto debito sovrano, cioè si sono mosse all'attacco degli stessi stati, fenomeno che si è accentuato quando l'indipendenza delle banche centrali dalla politica ha enormemente favorito la speculazione e la manipolazione bancaria. Ma anche qui si è proceduto per gradi. Finché gli stati erano la Thailandia o quelli dell'America del Sud, si poteva transigere. Quando invece le agenzie, spesso fortemente legate a segmenti dei partiti politici nordamericani, hanno cominciato ad attaccare gli stessi Stati Uniti e gli stati della zona Euro, valutandone, come del resto facevano già da anni, l'affidabilità finanziaria, l'allarme rosso è suonato. Un po' tardi, tuttavia.

Nel mentre, fatto inusitato, una grande parte degli investitori istituzionali ha iniziato a dubitare della stessa affidabilità delle agenzie di rating. Non si capisce ancora bene per quale ragione. Si potrà emettere un verdetto solo tra qualche tempo. Per ora basta dire che forse l'oligopolio delle agenzie si è esposto troppo e ha sottovalutato il ruolo che gli stati ancora svolgono nell'economia, tramite la tassazione e tutto ciò che cade sotto i poteri del legislativo. Le agenzie di rating dovrebbero spendere un sacco di soldi per sviluppare una così fitta rete di lobby, come del resto già fanno, che possa renderle immuni definitivamente e in ogni parte del globo, dalle rappresaglie che le classi politiche universali possono scatenare contro di loro. Ma a questo punto i costi supererebbero i favolosi guadagni che esse conseguono con le loro spericolate speculazioni.

Giulio Sapelli