lunedì 16 aprile 2012

L'Europa, un malato terminale

L’economia italiana va male. Decisamente male. Anche il resto dell’Europa non sta bene ma non male come noi, salvo Grecia, Spagna e Portogallo. Il singolo cittadino è angosciato come il passeggero d’un aereo in avaria, perché più che spaventarsi non può fare.
Siamo tutti coscienti della fallibilità umana. Come sostiene Carlo Cipolla, ogni ambiente ha la stessa percentuale di cretini: e dunque essi ci sono anche nelle stanze del potere. Ma il buon senso vuole che non si pensi a tutti i grandi leader europei come ad una manica d’imbecilli. E allora forse bisogna cambiare paragone. Invece di pensare ad un aereo che balla nella tempesta, pensiamo ad una tranquilla stanza in cui sono riuniti, intorno al letto dell’illustre malato, i più grandi clinici della nazione. Nessuno dubita della loro competenza. Essi hanno studiato con estrema cura i sintomi, hanno discusso fra loro, hanno consigliato rimedi, hanno promesso piccoli miglioramenti. Hanno anche chiesto dei sacrifici, in vista della futura guarigione: e tuttavia il malato non guarisce ed anzi peggiora, mese dopo mese. Quando la febbre diminuisce, e qualcuno comincia a sperare un po’, ecco che essa risale, togliendo ogni illusione. Analogamente, dopo che lo spread aveva dato segni di calo, non solo è di nuovo aumentato, ma è aumentato anche il differenziale fra i titoli di stato francesi e quelli tedeschi. In un caso del genere, la conclusione è una soltanto: non sono i medici che non sanno curare la malattia, è il malato che non può essere curato.

In questa eclisse della speranza, si può cercare la piccola soddisfazione intellettuale della comprensione. Come mai la malattia è incurabile? La risposta a questo interrogativo sarà opinabile, ma qualche ipotesi è meglio di niente.
Gli Stati della zona euro si sono messi in una situazione di stallo ed anzi d’impotenza. Può darsi che l’abbiano fatto volontariamente, per rendere il cammino verso l’unione politica del tutto irreversibile; può darsi lo abbiano fatto involontariamente, nella convinzione di potere malgrado tutto governare i fenomeni economici: certo è che la situazione attuale fa pensare al gioco del lupo, della capra e dei cavoli. Solo che qui non c’è la soluzione.

L’uscita dall’euro di un gigante come l’Italia provocherebbe tali e tanti danni, anche per gli altri, che tutti cercano di scongiurarla. Del resto s’è visto con la Grecia: quando ci sono state le prime avvisaglie, la Germania ha guardato da un’altra parte. Poi Atene è stata sull’orlo del default dichiarato (quello sostanziale c’è già) e tutti si sono precipitati ad aiutarla. Ma mentre prima sarebbe bastato un bastone, poi è stata necessaria la sedia a rotelle.
L’Italia dal punto di vista contabile è in condizioni meno drammatiche, ma i mercati hanno dei dubbi sulla sua capacità di continuare a pagare gli interessi sul debito pubblico. Gli interessi, si badi: di rimborsare il capitale non si parla neppure. E come se non bastasse, l’ammontare di tale debito continua inesorabilmente ad aumentare, non essendosi raggiunto il pareggio di bilancio.

E allora ecco la situazione: se si rompe l’euro i danni sono tali, per tutti, che il fatto viene visto con terrore. Ma le cause per le quali tale avvenimento è possibile sono tutte lì e sono ineliminabili. Se si va avanti c’è il baratro, se si sta fermi a poco a poco ci si apre il terreno sotto i piedi.

In questo frangente, che cosa ci ha consigliato, o meglio imposto, l’Unione Europea? L’austerità. Cioè una maggiore tassazione e minori consumi. In questo modo l’euro si rivaluta nel mercato interno ma il prezzo è la recessione. E questo ci fa cadere in una trappola. Se prima, in condizioni normali, si temeva che in futuro il Paese non avrebbe potuto pagare gli interessi sul debito pubblico, divenendo più povero avrà più denaro da dare? Fra l’altro, se cala il prodotto interno lordo - che è il denominatore della frazione che indica il debito pubblico - il numeratore aumenta anche se il debito pubblico in cifra assoluta rimane lo stesso di prima.
C’erano altre soluzioni? Forse l’acceleratore di Keynes: cioè un’immissione di denaro nel mercato interno, per esempio mediante grandi spese pubbliche. Ma dal momento che nessuno dei grandi clinici l’ha consigliato, forse è un rimedio sbagliato.

L’ideale sarebbe rimettere indietro l’orologio. Abolire l’euro e tornare ai cambi liberi. Ma è possibile? E come farlo?

Intanto il malato peggiora e solo i credenti hanno la risorsa di poter pregare.

Di Gianni Pardo

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